Un fulmine stilizzato in quel piccolo tatuaggio che spunta sul
suo polso sottile. E che racconta molto, di lei e di quello che ha
realizzato a capo della storica maison del gruppo Kering.
«Rappresenta luce e velocità», spiega Francesca Bellettini,
presidente e ceo di Yves Saint Laurent, in un'intervista esclusiva
a MFF in cui si fa il punto su una delle fashion house che stanno
lasciando il segno. Luce e velocità, che fanno rima con visione
precisa e tempi d'azione calibrati. Costruendo anzi rinforzando un
immaginario tra show faraonici, scelte di carattere per entrare e
uscire dalle fashion week e quel binomio sogno-business che mette
le ali ai piedi del fatturato. «Il full potential è più grande di 3
miliardi di euro, abbiamo fissato un obbiettivo più alto», ha
continuato Bellettini. Che racconta il percorso intrapreso tra la
visione condivisa con François-Henri Pinault (patron del gruppo
Kering, ndr), la scelta di Anthony Vaccarello e il futuro della
moda. Con uno sguardo anche all'Italia. «John Elkann ha tutte le
caratteristiche per fare una cosa molto simile a ciò che vedo nei
gruppi francesi», ha sottolineato la manager.
D:Nel 2013, ha preso in mano la maison con un fatturato intorno
ai 600 milioni di euro. Che nel 2018 è diventato 1,7 miliardi e
adesso è cresciuto ancora. Com'è riuscita a triplicarlo?
R:La cosa che ci ha premiato è il fatto di essere rimasti molto
coerenti e di aver lavorato sull'immagine del brand. Quando sono
arrivata in Saint Laurent, era un brand di una notorietà
incredibile. Si respirava, anche a 500-600 milioni di fatturato,
quest'aria di potenza, se si vuole chiamarla così. Poi ti guardavi
intorno e ti chiedevi: «Perché noi siamo a mezzo miliardo e gli
altri a molto di più?». E guardando nel dettaglio, il problema
maggiore era legato alla mancanza di identità. L'azienda aveva 30
licenze e operava con una miriade di marchi diversi,
diluendosi.
D:Come si è mossa?
R:Facendo chiarezza organizzativa e pulizia. Devo dire che
quello che era stato fatto prima di me, da Paul Deneve ed Hedi
Slimane con il re-branding, era stato giustissimo, una mossa che
aveva riportato chiarezza su quello che era Saint Laurent. Alcuni,
i non esperti, l'avevano reputata una mossa non respectful, questo
togliere Yves, invece era la mossa giusta, perché quando Yves
lanciò Rive gauche, la chiamò Saint Laurent. Lo confermò anche
Pierre Bergé, che rilasciò un'intervista spiegando perché era un
atto di rispetto. E questo, secondo me, ha sdoganato quello che era
stato fatto.
D:Lei è arrivata che c'era ancora Slimane come direttore
creativo?
R:Hedi è arrivato a marzo 2012 e io a settembre 2013. E da
subito mi sono molto focalizzata sulla parte operation, su quella
business. Mi ricordo che per me il potenziale era enorme, nei
corridoi si parlava di 1 billion e io: «Se facciamo le cose bene,
ci arriviamo facile. Sogniamo più in grande». Quindi in un meeting
tutti insieme per fare un primo step verso il full potential, ci
siamo focalizzati sui 3 miliardi.
D:Che è ancora quel target?
R:L'anno scorso ne abbiamo fissato un altro, andando più in
alto, perché abbiamo chiuso il 2019 a 2 miliardi, chiuderemo anche
quest'anno sopra i 2 e quindi avere una visione a 3 miliardi è
troppo riduttivo.
D:A quanto è ora l'obiettivo, a 5 miliardi?
R:Il full potential è più grande di tre. Adesso la cosa molto
positiva è che vendono veramente molto bene tutte le categorie di
prodotto, tutte. Anthony (Vaccarello, direttore creativo in carica
della maison, ndr) è riuscito a dare questa grandissima forza e
coerenza su tutte le categorie. E ha reso il marchio ancora più
forte.
D:Quando lei parla di essersi focalizzata sulle operation,
intende questo suo dar forza e concretezza a un'immagine.
R:È il ruolo del ceo in un'azienda di lusso: rispettare la
creatività e renderla un business di successo.
D: Come è stato Marco Bizzarri con Alessandro Michele, da
Gucci.
R:Esatto, ma com'è stato lo stesso Pierre Bergé con Yves. Devi
sapere quello che è il tuo ruolo, cioè riuscire a tradurre, in un
business di successo, una visione creativa corretta. Abbiamo creato
le business unit divise per categoria di prodotto per una
focalizzazione verticale dallo sviluppo della collezione fino alla
consegna in negozio. Quando sono arrivata, i presidenti delle
regioni non riportavano direttamente a me, ma a un direttore
retail, e invece ora sono le mie lunghe mani. Perché i business
delle regioni non sono solo retail: sono retail, wholesale,
l'esecuzione della strategia di comunicazione e marketing e un
presidente di region deve essere completo e focalizzarsi su ogni
aspetto.
D:Ha cancellato anche tante licenze e marchi, creando un unico
brand.
R:Un unico marchio, via le licenze, piano piano, perché erano
profittevoli ma diluivano il brand. Mi ricordo una prima riunione
con François-Henri (Pinault, ndr), ero appena arrivata, era il 15
settembre. Lui mi chiese: «Allora cosa si fa qua?».
D:Come il primo giorno di scuola.
R:Io gli risposi: «Lo dobbiamo decidere insieme, perché Saint
Laurent è un gioiello che mi rendo conto abbia la struttura e i
costi molto più alti rispetto a quelli che può sopportare oggi, a
questo livello di fatturato». A me piace la Formula 1, quindi ho
detto: «È come se fossimo su una Cinquecento, però con il motore di
una Ferrari. Dobbiamo decidere cosa vogliamo fare. Possiamo dare a
una Cinquecento il motore di una Cinquecento. Oppure costruiamo la
scocca della Ferrari e spingiamo l'acceleratore. Quindi se mi lasci
il tempo di fare economia di scala sulla struttura dei costi che
ho, puntiamo in alto». E lui ovviamente ha detto: «Assolutamente,
andiamo». Ed è la cosa più divertente per un ceo e io mi sento
molto più in linea con un marchio dove devo spingere, rispetto a un
marchio dove devo frenare.
D:Per grandi maison come voi, questa crescita continuerà o ci
sarà una saturazione?
R:È molto difficile trovare la saturazione, prima di tutto
perché ci sono sempre mercati nuovi. Prima della Cina, c'era il
Giappone, c'era l'America. A un certo punto arriverà anche il Sud
Africa. E poi puoi sempre crescere rubando quote di mercato agli
altri, nei mercati in cui sei già. Anche quando qualcuno dei miei
collaboratori mi dice: «Qua, siamo alla saturazione», io gli
rispondo: «Ma quale saturazione? Finché c'è un marchio che vende un
prodotto di lusso, lo puoi vendere anche tu».
D:Siete tra sogno e business, cioè Saint Laurent è proprio
questo.?
R:È questo e Anthony fa questo in modo incredibile.
D:Con Vaccarello come va? Come vi siete conosciuti?
R:Prima di conoscerlo mi faceva venire un gran nervoso (ride,
ndr). Guardavo gli editoriali nei giornali e vedevo molto di
Anthony Vaccarello con i nostri accessori, cioè il suo
ready-to-wear e gli accessori di Saint Laurent. Nel frattempo,
viene nominato direttore creativo di Versus. Guardo la collezione
presentata a Londra e mi rendo contro di quanto avesse capito il
brand, pur rimanendo se stesso. Da quel momento, mi sono messa in
testa che avrei voluto incontrarlo e che se ci fossimo piaciuti,
sarebbe stato l'unico direttore creativo che avrei voluto
incontrare. E così è stato.
D:Come si fa a rendere un marchio che piaceva alle signore
vicino alle donne più giovani, alle ragazzine?
R:Facendole sognare. I direttori creativi di oggi, diversamente
da quelli di 50 anni fa, devono lavorare sul brand. Il prodotto è
una delle componenti.
D:Parlando della nascita di grandi gruppi. come vede
l'Italia?
R:I francesi ti lasciano la possibilità di lavorare e di
rimanere te stesso, in questo sono bravissimi. In Kering, per
esempio, si parla di «autonomy within a framework». Concordiamo
insieme la cornice, all'interno della quale ci si muove
liberamente. Pinault è riuscito a fare un gruppo del lusso, senza
partire dal lusso, operando quasi come un mecenate, da colui che dà
le risorse per poter esprimere la creatività, e questo secondo me è
molto francese. Non a caso il diritto d'autore è nato in Francia.
Allo stesso modo gli imprenditori italiani dovrebbero impegnarsi a
non prevaricare.
D:Cosa tenere d'occhio per un nuovo gruppo italiano?
R:Sto guardando con molto interesse a quello che sta facendo
John Elkann con Exor, perché è il primo che si sta muovendo in
questo senso, non partendo dal lusso. Sono nel board di Ferrari, ma
non sono coinvolta in nessuna di queste cose. Elkann è un
grandissimo imprenditore e gli riconosco la capacità di saper
lavorare molto bene con i ceo, quel touch da vero presidente di un
gruppo. C'è interesse, c'è tanta umanità, ma non c'è la tracotanza
di voler fare il lavoro al posto altrui. Un gruppo italiano? Credo
che con persone così possa succedere, mentre con persone che
pretendono di mettere insieme un gruppo per poi voler fare il
lavoro di tutti gli altri è molto difficile. John Elkann ha tutte
le caratteristiche per fare una cosa molto simile a ciò che vedo
nei gruppi francesi.
D:Cambieranno gli stilisti? Cambierete voi?
R:La moda è costume, è cultura, quindi non c'è dubbio che
cambierà, ma cambierà evolvendo, non con un terremoto, e quindi non
ce ne accorgeremo. L'online può aprire delle nuove opportunità di
business, ma una sola strategia non va bene per tutti. Potrebbe
cambiare il modo in cui un nuovo brand si può approcciare al
settore. Mentre in passato l'unico modo per entrare nel fashion era
spingere sulla distribuzione multibrand, oggi le label posso
emergere online, come fenomeno digitale. Credo molto nei gruppi,
vedo il vantaggio che dà farne parte. Essere in un gruppo permette
di gestire meglio il pool dei talenti, i quali a loro volta sono
attratti dalla possibilità di crescere lateralmente, verticalmente,
dal brand al gruppo e dal gruppo al brand. Poi, il digitale è
servito, ma sono serviti molto di più gli investimenti
cross-channel, cioè la possibilità di fare delle cose digitali
anche nei negozi, come le vendite o i pagamenti a distanza.
D:Siete stati i primi a togliervi dalle sfilate fisiche e i
primi anche a tornare. Le fashion week sopravviveranno?
R:Ci saranno, le fashion week ci saranno sempre, anche con più
agilità per i brand nell'entrare e nell'uscire, ma essere nella
fashion week ha un valore perché è un happening, è un momento per i
brand, grandi e piccoli, per la città, per i clienti. Però non ci
dev'essere l'ossessione di fare le cose per inerzia. C'è un
qualcosa che le varie camere cercano di preservare anche per far sì
che la creatività, anche nascente, possa esprimersi. La pandemia ha
dato modo a certi piccoli brand di avere molto risalto dato che non
essendoci le sfilate tutti abbiamo puntato sul digital e questo
stimolo creativo può e deve rimanere.
lde
MF-DJ NEWS
1109:06 nov 2021
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November 11, 2021 03:08 ET (08:08 GMT)
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